EBBENE LEGGENDO QUESTA SUA SIMIL-RECENSIONE VORREBBE FARCI PENSARE CHE...
Con le loro influenze musicali, i Coral avrebbero potuto essere una nutrita comitiva di ragazzotti italiani con l’acne invece che una nutrita comitiva di ragazzotti inglesi con l’acne. Ma, chissà come mai è sempre così, pur avendo avuto nella nostra bella Italia una originale scena beat (dai New Dada ai Giganti), pur annoverando maestri degli effetti sonori più fantascientifici al mondo (da Ennio Morricone a Piero Umiliani), pur facendo provare invidia ai mod di tutto il pianeta per le nostre Lambretta e per le allegre gite in Vespa, pur avendo solide enciclopedie infarcite di balli e tradizioni locali caserecce e antichissime, nonché scaturite da mode più recenti (dalla tarantella all’hulli-gulli), siamo destinati a ricevere i dischi di debutto di gruppi come i Coral tre mesi più tardi, in attesa che la stampa estera li abbia sezionati fino all’osso. Perché i Coral sono stranieri, e noi siamo qui, in una Italia sempre più e inesorabilmente impegnata a ricercare la tradizione del bel canto, quello che fa piangere le mamme. E se anche così non fosse, è ormai appurato che i Bugo di turno, quelli che a sperimentare almeno ci provano, sono destinati a sperare, alla meglio, che qualche migliaio di conterranei compri la loro musica, senza che questa possa mai raggiungere i paesi d’Oltralpe. E non è un discorso stupido, se pensate che nella musica dei sei adolescenti (o giù di lì) di Hoylake, Liverpool, convivono più o meno un centinaio di stili e influenze lontanissime. Impostati come uno di quei vecchi complessi rhythm ‘n’ blues degli anni ’60, in cui sullo stesso palco c’era posto per fiati e organi, chitarre e sassofoni, i Coral hanno sicuramente ascoltato tanta musica, certo devono averne ascoltata di molto particolare. In una recente intervista, Ian Skelly, il fratello minore del leader James, ha confidato che il padre, alquanto fricchettone, non solo era identico a John Lennon, ma negli anni d’oro in cui tra gli scaffali potevi trovare nuovi dischi di Jimi Hendrix e Frank Zappa, Beatles e Rolling Stone, Led Zeppelin e Black Sabbath, Who e Small Faces, era solito perdere il proprio tempo nei locali di Liverpool alla scoperta di qualche gruppo nuovo, alla ricerca di qualche disco in più da aggiungere alla sua già abbondante collezione. E così tutto si spiega. Tra i dischi di Mr Skelly, quelli che poi sono finiti tra le mani dei due piccoli Skelly, ci dovevano essere vinili dei Beach Boys e dei Pink Floyd di Syd Barrett, come l’ultima compilation dell’Eurovision Song Contest del ’69 e qualche suggestiva raccolta di folk russo, polka e musiche varie dell’Europa dell’Est. E ogni cosa lì è nata, tra gli LP sciupati e ordinati in un mobiletto poco distante dal camino di casa Skelly. E allora i Coral si divertono con la psichedelia favolosa in versione spaghetti-western di “Spanish mainâ€, per proseguire con la malinconia allucinata e autunnale di “I remember when†e tuffarsi nel mondo ska, abbellito qui e là dal dolce riverbero di un’armonica lontana di “Shadows fallâ€, per finire con un omaggio, nella ghost track, a Bob Marley. Così i Coral, dall’alto dei loro 18, 19 e 21 anni, concludono la loro impresa musicale gridandoci alcune famose parole del re del reggae, “never give up the fightâ€. Noi li prendiamo in parola, sperando che la prossima volta si dimentichino un poco della mitica musica della West Coast inglese, facendoci sentire meno inferiori con i loro effervescenti eclettismi sonori. Li aspettiamo quindi intrepidi, sui palchi di casa nostra. Chissà mai che non invitino sul palco Rita Pavone e consorte, intraprendendo, in onore della nostra pittoresca penisola, “il ballo del mattone†(o il geghegè, se preferite).
(Valeria Rusconi)