FIRENZE - Quando Leonard Cohen arriva in città , si porta dietro una nuvola di calore poetico e la modella con ruvidi cenni di voce per la delizia del pubblico. Più che un concerto, una lectio magistralis sull'arte della canzone, una pacata riconciliazione con la bellezza oscura del vivere. E dire che da buddista, nei suoi lunghi anni di ritiro in monastero, ha adottato il nome di Jikan (il silenzioso).
Ma ora parla, o meglio canta, con quella dizione precisa e densa che lo ha reso un monumento vivente della canzone popolare, come un campione di eleganza versificatrice, e continua a incantare, letteralmente, le platee di tutto il mondo, compresa quella di Piazza Santa Croce, per l'unica data italiana di quest'anno, ultimo trionfale concerto del festival Live On, splendido luogo per definizione, esattamente un anno dopo aver già stregato piazza San Marco a Venezia.
La notte è serena, complice, affettuosa, di umore primaverile, perfetta per questo signore di 76 anni che esce sul palco come un galante seduttore, vestito di scuro, come in obbligatorio segno di rispetto per i demoni della notte, e si toglie il cappello con lieve e dignitoso inchino del capo per rispondere agli applausi. Firenze lo accoglie da città del mondo, nel senso che il pubblico, cioè quelli che hanno comprato il biglietto (a riempire le quasi cinquemila sedie che riempiono la piazza) sono moltissimi stranieri, venuti espressamente, con sommo gaudio delle strutture turistiche, e anche gli italiani presenti provengono in larga
parte da altre città .
La musica prende il volo con nitore, pulizia, forbita e funzionale sostanza. Cohen snocciola canzoni, a cominciare come fa sempre da Dance me to the end of love, stendendo la platea con colpi da novanta come The future, Bird on the wire, Chelsea hotel #2, struggente dedica a Janis Joplin ("ti ricordo bene al Chelsea hotel, eri famosa il tuo cuore era leggenda. Dicesti un'altra volta di preferire uomini belli, ma che per me avresti fatto un'eccezione"), e poi ovviamente Suzanne, I'm your man, So long Marianne, che se non fossero cantate con tale sobrietà sarebbero piccole deflagrazioni poetiche, e infatti Hallelujah, quando l'ha rivista Jeff Buckley l'ha trasformata in una visione celestiale di inaudita potenza.
Pezzo dopo pezzo la piazza diventa un tempio a cielo aperto dove si onora la poesia. Come si creasse un'isola, privilegiata ed esclusiva, un cerchio magico, con tutto il resto del mondo ad aspettare fuori. L'unicità di Cohen è quella di sembrare un avventuriero dell'anima, un consumato bohemien ma addestrato alla scuola zen, ogni frase sembra una freccia puntata al centro delle cose, alla fine un vecchio allievo di cose divine che riesce a trasformare le sue quotidiane epifanie in melodie avvincenti.
Gli arrangiamenti spargono sentori di locali fumosi, di isole greche (dove ha passato molto del suo tempo), chitarre come mandolini o come distillati di blues e sassofoni che cesellano note, coriste perfette, musicisti che eseguono senza alcuna fretta, e senza spasimi, un dolce rito di accompagnamento. Regala al pubblico anche un pezzo nuovo di zecca, intitolato Lullaby, anticipo di un disco di inediti che, si dice, stia facendo, dopo tanti anni. Alcuni pezzi li dilata, la musica si sospende come se dovesse non finire mai, la sua voce si staglia su tutto con quel timbro che ha fatto epoca, è ferma e lucida, portatrice di sapienza e di antica saggezza. A metà concerto canta Waiting for a miracle, aspettando un miracolo, ma qui nessuno ha dubbi sul fatto che il miracolo si sia rinnovato, ancora una volta.