Il tragico caso Juve è cominciato con la richiesta di un sorriso. È iniziato, cioè, con un atto d’hubris, così come gli antichi greci chiamavano l’illusoria tracotanza degli umani che tentano vanamente con un atto d’imperio di cambiare ciò che sottostà alle leggi dell’immutabile e del necessario. Il tragico caso Juve ha avuto principio con la richiesta del giovane rampollo Elkann – l’estroverso e funambolico Lapo – di vedere in campo e sulle pagine dei magazine una squadra e una società più sorridente, più simpatica, più cool. Quando lo sventurato, il figlio dell’élite torinese, l’esperto di marketing e cittadino del mondo chiese «una Juve più smile» fu il principio della fine, l’abbrivio dell’inevitabile cataclisma, perché non puoi essere vincente e simpatico. Aut aut. O sei l’uno o sei l’altro, come gli ricordò l’allora amministratore delegato Antonio Giraudo: «Senza “smile†negli ultimi dieci anni abbiamo vinto cinque scudetti, giocato sedici finali di coppe vincendone otto, conquistato due Palloni d’Oro. La nostra società è una di quelle più solide dal punto di vista finanziario, senza che gli Agnelli in questi ultimi dieci anni abbiano dovuto mettere denaro». Invece Lapo voleva sfidare le leggi della natura e del calcio: voleva vincere sul campo e fuori. Pretendeva, lo sciagurato, di battere tutte le altre squadre e poi di riceverne pure il clap clap di un battimani: grazie che ce le avete suonate 4 a 0, cheese. Voleva, insomma, essere l’Inter di Moratti, la squadra che piace alla gente che piace, a Fiorello, a Valentino Rossi, a Gino Strada, a Michele Serra, a Gad Lerner. Voleva che la sua Juve avesse lo charme del perdente senza perdere, la fortuna sportiva senza rimetterci la fortuna economica. Non si capacitava del perché lui, che aveva rilanciato l’immagine Fiat con la semplice idea di farne scrivere il logo a caratteri maiuscoli su una felpa, non potesse fare la stessa cosa con la squadra di famiglia. Lapo non capiva perché il giocattolo sportivo del nonno dovesse essere la squadra di cui, nei bar dello sport, si diceva che rubasse, e al cui palmarès si associasse il muso brutto sporco cattivo di un team manager adiposo e di un amministratore delegato col portamento di un impiegato delle poste. È così che è iniziato il tragico caso Juve, e non c’è dio dell’Olimpo né giudice di tribunale che oggi possa inviare un qualche deus ex machina a indicare una via di redenzione.
Un chiaro caso di illecito strutturato
Chi oggi finge di scandalizzarsi per Calciopoli 2, mente sapendo di mentire. Era già tutto chiaro allora, nel 2006, l’anno che fu per il calcio quello che fu il 1993 per la politica. Tredici anni dopo le mani, furono ancora la magistratura e la stampa a pulire i piedi, col consenso di chi, da quella depurazione, s’illudeva di trarne solo vantaggi e nessuna rogna. Il campo, quello su cui rotolava la palla rotonda, diceva questo: c’erano due squadre invincibili, la Juventus della triade (Moggi, Giraudo, Bettega) e di Del Piero e Ibrahimovic e il Milan di Berlusconi e Galliani, di Kakà e Maldini che spadroneggiavano in Italia e in Europa. Poi c’era l’Inter di Moratti, una squadra campione solo nei triangolari d’agosto cui da anni andava male tutto quel che poteva andare male. Il 5 maggio, Kanu, Gresko, Recoba, Vampeta, dobbiamo continuare? L’Inter era la squadra dei tifosi che per consolarsi correvano in libreria a comprare le barzellette sugli interisti di Severgnini (l’autoironia è l’arma del perdente), i cui supporter gettavano motorini dal secondo anello di San Siro ed esponevano striscioni di incitamento ai propri giocatori il cui più benevolo era questo: «Non sappiamo più come insultarvi». La Juventus, invece, era la squadra che vinceva perché, come ha spiegato German Camoranesi, «quando entravamo in campo, gli altri si pisciavano addosso». Fu nell’estate del 2006, a pochi mesi dal Campionato del Mondo, che andò in scena Calciopoli, un assurdo processo sportivo in cui la Juventus – e, in minor grado, Milan, Fiorentina e Lazio – pagarono per non avere commesso il fatto. A dirlo non è Tempi, Giampiero Mughini, o gli sfegatati del sito ju29ro.com, ma quegli stessi giudici che allora decisero la sanzione sull’onda di un sentimento popolare e di una campagna di stampa cui non dispiacque materializzare in sentenza il luogo comune più diffuso: la Juventus vince le partite “perché paga l’arbitroâ€.
A spiegarlo furono quegli stessi che la condannarono. Come Mario Serio, giudice della Corte di appello federale: «Abbiamo cercato di interpretare un sentimento collettivo, abbiamo ascoltato la gente comune e provato a metterci sulla lunghezza d’onda». O come Piero Sandulli, il presidente di quella Corte, che dichiarò: «Nella nostra sentenza evidenziammo soprattutto cattive abitudini, mica illeciti classici. Si doveva far capire che quello che c’era nelle intercettazioni non si fa. è stata una condanna etica». A un quotidiano Sandulli ha anche detto che nelle partite del campionato 2004-2005 «non ci sono illeciti. Era tutto regolare. L’unico dubbio era sulla partita Lecce-Parma». Lecce-Parma. Ma allora perché la Juve è andata in B?
Chi ha avuto la pazienza di leggere le sentenze dei tribunali e non soltanto quelle vergate su carta dai quotidiani rosa salmone, lo sa dal 2006. Contro la dirigenza juventina c’erano prove di non rispetto dell’articolo 1 del codice di giustizia sportiva (lealtà sportiva), ma non di violazione dell’articolo 6 (illecito sportivo), l’unico la cui violazione prevede la retrocessione. I giudici, già nel 2006, lo avevano appurato con certezza, tanto che, come spiegò sempre Sandulli, «l’illecito associativo non esisteva, era una falla del sistema giuridico che è stato da noi introdotto». È il famoso «illecito strutturato» di cui parlò Francesco Saverio Borrelli, chiamato dall’allora commissario straordinario Guido Rossi – ex dirigente Telecom, ex cda Inter – a condurre le indagini: «è un caso di illecito strutturato», spiegò l’eroe di Mani Pulite. Un’arcana formula che si potrebbe tradurre più o meno così: non abbiamo prove che la Juventus abbia comprato partite, né arbitri, né guardalinee, né calciatori. Abbiamo appurato che «non esisteva alcuna cupola», che la celebre favola delle “ammonizioni mirate†a favore dei bianconeri era appunto una favola, che non vi è stata mai alcuna «alterazione del sorteggio arbitrale», che l’arbitro Gianluca Paparesta non fu mai chiuso in uno spogliatoio da Moggi. Ecco, sebbene non ci sia una-prova-una che la Juventus abbia rubato le partite, sebbene sia illogico pensare che si possa alterare un campionato senza alterare i match, abbiamo condannato la Juventus alla serie B, alla non assegnazione del campionato 2004-05 e alla revoca dello scudetto 2005-06 (non oggetto d’indagine). Tutto questo durante un processo in cui abbiamo eliminato un grado di giudizio, in cui abbiamo concesso agli avvocati difensori solo tre giorni per preparare la difesa e un quarto d’ora per esporla e in cui non abbiamo ammesso come prove i filmati delle partite o altre prove documentali, ma solo alcune intercettazioni da noi selezionate senza dare la possibilità ai presunti colpevoli di accedere a tutte quelle disponibili (171 mila). Insomma, quel che si dice un processo equo. È scritto così nella sentenza: «è concettualmente ammissibile l’assicurazione di un vantaggio in classifica che prescinda dall’alterazione dello svolgimento o del risultato di una singola gara». Deve essere questo che si intende per “illecito strutturatoâ€: sei colpevole perché è ammissibile che tu lo sia.
Già allora ci fu chi tentò di insinuare che Calciopoli era una farsa e che dietro l’operazione piedi puliti si stava svolgendo una pedicure tutta a favore di telecamere e istinti belluini di piazza. Oltre al giornale che tenete in mano, avanzarono sospetti alcuni giornalisti come Piero Ostellino sul Corriere della Sera, Christian Rocca sul Foglio, Giampiero Mughini nella trasmissione tv Controcampo. Probabilmente l’avrebbe voluto fare anche la firma numero uno del giornalismo sportivo italiano, quel Giorgio Tosatti di cui, con sospetto tempismo, furono pubblicate telefonate con Moggi, forse anche per vendetta contro le aspre critiche che Tosatti aveva mosso al pm Raffaele Guariniello, quello che aveva indagato invano sulla stessa Juventus. Ma non solo giornalisti, anche Giuseppe De Biase, il giudice che condusse le indagini sul calcio scommesse negli anni Ottanta, uno che di diritto sportivo se ne intende certamente più dell’avvocato d’affari Guido Rossi, disse senza mezzi termini: «La sentenza su Calciopoli è un aborto giuridico». E il giornalista Enzo Biagi, non esattamente un garantista a tutto tondo, aggiunse: «Una sentenza pazzesca costruita sul nulla».
Con Lippi non vinceremo mai
A tentare di discolparsi ci provarono anche i vari “mostriâ€, inutilmente. Il designatore Paolo Bergamo, quello accusato di essere troppo amico di Moggi, spiegò dal principio che lui «parlava con tutti i dirigenti». L’arbitro Massimo De Santis rivelò che le intercettazioni delle telefonate usate dall’accusa per dimostrare che esistevano degli accordi tra dirigenti delle squadre e arbitri erano «tutte successive alle partite». Moggi non fece mai finta di non essere quello per cui veniva pagato a peso d’oro: un dirigente maneggione, autoritario, svelto. Prima che Berlusconi fosse, Moggi fu. Fu lui il primo a usare l’espressione «non sono un santo» e ad ammettere di aver infranto gli obblighi di lealtà e correttezza sportiva, il già citato articolo 1 «quello che nel mondo del calcio, che è business, forse non infrangono solo i magazzinieri». Perché che tutti parlassero con tutti, era già noto nel 2006, eppure solo Moggi fu dipinto come un ciarliero farabutto. «Ci sono 42 società tra serie A e B, tutte parlano, l’unica società sordomuta era l’Inter», ha detto Moggi.
Eppure tutti hanno fatto finta di credere che il calcio fosse corrotto per colpa di uno solo. I quotidiani, con la Gazzetta dello Sport in testa, cavalcarono la piazza. Candido Cannavò scrisse che «la vergogna era ormai venuta allo scoperto» ed era «impossibile nasconderla sotto una foglia di fico». Gianni Mura su Repubblica chiese di fare «piazza pulita» per liberarsi di «uno scandalo che è peggio di tutti gli altri, è il più ramificato ed il più simile (ammazzamenti esclusi) ai metodi mafiosi». Gigi Garanzini sulla Stampa intimò di mandare via «i mercenari padroni del vapore». Per Gad Lerner trattavasi di «amici degli amici, figli dei padrini, più o meno come nella mafia». Lo sdegno si fece politico con Antonio Di Pietro che assicurò trattarsi di un nuovo caso «Tangentopoli. E ci sono le prove. Queste intercettazioni sono importanti. Hanno lo stesso valore della mazzetta scoperta a Mario Chiesa». L’allora ministro dello Sport, Giovanna Melandri, si disse pronta a «restituire al calcio italiano l’onore che merita». Il fu radicale Daniele Capezzone propose «Zdenek Zeman come presidente della Figc». Essendo alle porte il Mondiale, l’Italia del pallone chiese la testa degli azzurri della Juventus: «Lippi, Buffon e Cannavaro devono tornarsene a casa» (Manifesto); «La Nazionale farebbe meglio a starsene a casa» (La Padania); «La Nazionale è la Nazionale italiana, non la Nazionale della Gea. Lippi deve dimettersi» (Beppe Grillo); «Che questa fosse una squadra mediocre, lo penso da tempo e per una banale ragione. E se Lippi è un genio del pallone, almeno a un Nobel può aspirare anche il mio portinaio di Milano» (Vittorio Zucconi, Repubblica). L’associazione di consumatori Codacons pretese un risarcimento per ciascun italiano di 2.500 euro, l’Adusbef e Federconsumatori chiesero «l’allontanamento dell’attuale ct della nazionale, Marcello Lippi. Le due associazioni consumatori chiedono un Ct al di sopra di ogni sospetto». Marco Travaglio rivelò di essere a conoscenza del sistema da tempo e di aver già anni prima scritto un libro sul terribile «Lucky Luciano».
Oggi che Moggi ha portato in aula le “intercettazioni degli altri†(pagandone la sbobinatura di sua tasca, si badi), la stampa italiana ha con qualche imbarazzo o minimizzato o riaffilato la ghigliottina come Oliviero Beha sul Fatto (“Moratti a processo come Moggiâ€). I tifosi juventini del sito giùlemanidallajuve.com hanno annunciato di aver pronto un dossier sulle errate scelte societarie dall’estate 2006 a oggi. In rete si trovano dettagliate ricostruzioni di presunte lotte tra famiglia Agnelli e famiglia Elkann per il patrimonio Fiat in cui la società Juventus sarebbe stato l’agnello sacrificale. Da più parti si è iniziato a chiedere che lo scudetto che fu tolto ai bianconeri e assegnato ai nerazzurri, sia restituito.
Ma chi l’ha comprato Poulsen?
Chi non leggesse coi paraocchi le intercettazioni di oggi come quelle di ieri, invece, ne dovrebbe trarre la medesima conclusione: trattavasi di lobbying estremo, pressione per ottenere qualche occhio di riguardo, chiacchere da bar, sciocchezze e millanterie. Che da tutto questo ne derivasse un risultato pratico, concreto, fattuale non è dimostrato da alcuna prova. Né ieri né oggi. A meno di pensare che la palla, anziché essere rotonda sia quadrata e che bastino le battutacce da bandito al telefono per far di Darko “scarpa di piombo†Pancev un Alessandro “Pinturicchio†Del Piero.
L’aspetto paradossale di tutta la vicenda è che anche se lo scudetto 2005/06 fosse restituito, anche se dagli almanacchi fosse cancellato che la Juventus è stata in serie B, anche se Moratti riconoscesse che non era esattamente un comportamento «da onesti» che l’ex presidente Giacinto Facchetti telefonasse agli arbitri prima delle partite, anche se tutto ciò accadesse, questo non renderebbe meno tragico il destino della società Juventus. Perché è stata la Juventus a scaricare Moggi e oggi è quasi patetico il tentativo di riabilitarlo senza ammetterlo. È stata la Juventus, tramite il suo avvocato Cesare Zaccone, a definire la retrocessione in B una soluzione equa. È stata la Juventus a vendere i suoi campioni all’Inter. È stata la Juventus a comprare Poulsen, Felipe Melo, Grosso. È la Juventus oggi la squadra che non termina la stagione con lo stesso allenatore, che viene contestata dai suoi supporter, che perde con l’Udinese e il Fulham, che vive di continui litigi negli spogliatoi, che trasforma i campioni in brocchi, che ad aprile inizia a parlare di calciomercato. Il tragico destino della Juve del 2010 è questo: è l’Inter del 2000. E non c’è nemmeno uno smile che la faccia sorridere.
Emanuele Boffi
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