TRADIZIONI

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Moderatori: silvietta, admin

Messaggioda BornOnDifferentCloud il sab dic 23, 2006 10:24 am

metto un approfondimento sul Carnevale romano:

[...]Intorno al 1550 un turco di religione musulmana, di ritorno nel proprio paese dopo un lungo viaggio, riferì che in un particolare periodo dell'anno i cristiani impazzivano, per poi riacquistare la ragione grazie ad una polvere che veniva loro cosparsa sul capo. Il viaggiatore si era probabilmente trovato a Roma durante il Carnevale, straordinaria occasione per i più spettacolari e sfrenati divertimenti.
La "follia" conquistava a tal punto tutti i romani, senza distinzione di classe, che alla metà del Settecento Benedetto XIV arrivò ad emanare un'enciclica sull'argomento. Il pontefice era preoccupato: il martedì grasso i festeggiamenti proseguivano infatti ben oltre la mezzanotte, scadenza del Carnevale. Dopo un'intera nottata di baldoria, in molti si recavano ancora in maschera nelle chiese alla cerimonia delle Ceneri, funzione austera volta a ricordare la transitorietà della vita terrena, per poi tornare a casa esausti e dormire buona parte del mercoledì. A dire il vero questo comportamento, che a prima vista può apparire bizzarro, è senz'altro giustificabile, se non altro per il fatto che le autorità imponevano la partecipazione al rito, ma certo è comprensibile anche l'inquietudine del papa!
Era stato Paolo II, nel Quattrocento, a riportare il Carnevale all'antica sontuosità. Il pontefice, che risiedeva nel Palazzo San Marco, presso l'attuale piazza Venezia, spostò il centro dei divertimenti da Testaccio a via Lata, che prese allora il nome di Corso. Per alcuni secoli la zona rimase il cuore di una festa il cui periodo di gloria durò fino al termine del Settecento. Proseguirono nel secolo successivo, un po' stancamente, i tradizionali festeggiamenti, che nulla però avevano a che vedere con lo sfarzo del periodo precedente.
Qualcuno, rimpiangendo il passato, auspicò la completa scomparsa di una festa scesa di tono e dominata ormai solo da valutazioni politiche. Dopo la caduta della Repubblica Romana e negli ultimi anni del potere temporale ad esempio, le autorità papali tentarono di incentivare i romani, ma con scarsi risultati, a mascherarsi e a passeggiare lungo il Corso, dando così l'idea della normalità. Nel 1837 al contrario, per timore di disordini e proteste politiche, furono vietate le maschere, ufficialmente però "cor pretesto e la scusa der collèra", cioè per ragioni sanitarie. Durante le proteste attuate da alcuni giovani, che a quel punto cercarono di impedire anche la festa dei moccoletti, si verificarono disordini: sassate e bastonate che "li cherubbiggneri e li dragoni", cioè i carabinieri e le guardie non riuscirono a frenare tanto che - è il Belli a parlare! - "ce fescero la parte de cojjoni".
I festeggiamenti erano ormai sempre più dimessi. Nel 1876 circolò allora questo epitaffio: "Di Roma il Carneval qui morto giace; Dorma egli alfine e Roma lasci in pace". La tradizione continuò invece a sopravvivere; nonostante gli sforzi di un apposito comitato nato per risollevare le sorti della festa, rimaneva solo un pallido ricordo dei tempi in cui il Carnevale romano costituiva una delle maggiori attrattive di viaggiatori e cronisti. Ben lontani erano ad esempio festeggiamenti quali quello del 1634 quando, in occasione della visita nella città del principe polacco Alessandro Wasa, il cardinale Barberini aveva fatto organizzare in piazza Navona un maestoso spettacolo. Lo stravagante ospite, a dire il vero, ripartì all'improvviso da Roma, ma la giostra del Saracino, ormai allestita, si svolse ugualmente in occasione del sabato grasso. Fu un torneo grandioso a cui parteciparono, divisi in squadriglie, ben 360 cavalieri e 138 cavalli, oltre ad un nano e un toro. L'ingresso nella piazza di una bellissima nave musicale concluse la festa, a cui aveva assistito tutta la nobiltà romana.
Uno spettacolo che oggi ci appare incivile, ma che nei secoli scorsi costituiva il più amato divertimento del Carnevale, erano i palii, fra i quali spiccavano le corse umane, in primo luogo "lo pallio delli Judei". Nata per una questione, se così si può dire, tecnica - ad ebrei e cristiani erano vietate le attività comuni - la corsa divenne col tempo occasione di scherno e vessazioni. Le angherie crebbero ed i giornalisti del tempo, i menanti, si fecero portavoce di quella che attualmente definiremmo intolleranza antisemita, ma che corrispondeva alla sensibilità "grossolana" dell'epoca. Si arrivò a far correre i partecipanti - che un cronista definì "bestie bipedi" - a stomaco pieno perché fossero più affaticati. Un resoconto del febbraio 1583 ricorda: "I soliti otto ebrei corsero ignudi il palio loro, favoriti da pioggia et vento degni di questi perfidi, mascherati di fango al dispetto delle grida", ovvero i provvedimenti legislativi che minacciavano tre tratti di corda a chi avesse tirato fango sui corridori. Il livore della popolazione non può però certo meravigliare: in quel periodo infatti erano le stesse autorità che, mentre emanavano periodiche leggi che vietavano di molestare gli ebrei, nello stesso tempo li sottoponevano a numerose umiliazioni, costringendoli a partecipare al palio ma anche obbligandoli, per il resto dell'anno, a risiedere nel ghetto e a portare un segno distintivo, oppure vietando loro di celebrare alcune festività o di svolgere numerose attività economiche. Nel 1668 Clemente IX abolì la corsa, ma pretese in cambio una somma in denaro. Ogni anno, fino al secolo scorso la comunità ebraica fu costretta a versare il tributo, che veniva utilizzato per addobbare la tribuna delle autorità cittadine ed acquistare i palii per i vincitori delle corse che continuavano a svolgersi durante il Carnevale.
Agli anziani non veniva però riservata una sorte migliore: in cambio di una misera, ma per taluni necessaria, somma in denaro erano costretti a correre nudi. Nel 1633 ci si spinse, se possibile, oltre, in una incredibile esposizione delle deformità. Ci dicono gli Avvisi, i "giornali" dell'epoca: "In strada giulia... fu corso un palio di gobbi ignudi molto ragguardevoli per la varietà delle loro gobbesche schiene, che per esser cosa nuova in questa città vi concorse molto popolo e nobiltà in carrozza". E' difficile oggi immaginare come ciò potesse essere fonte di divertimento, ma il dato storico può essere compreso solo evitando di giudicare con la sensibilità ed i parametri di un'epoca successiva gli eventi di allora che, per essere intelligibili, vanno relazionati al contesto in cui si verificarono. I palii umani erano molto apprezzati dai romani, e talvolta se ne svolgevano anche di straordinari. Il 20 agosto 1633 ad esempio, come risulta da un documento dell'epoca, "Per passatempo et ricreatione in questi caldi estivi, da persone particolari giorni addietro fu fatto correre in Trastevere un palio di zoppi... con gran piacere del popolo che in gran numero vi concorse a vedere".
La corsa principale del Carnevale dell'epoca era però quella dei barberi, piccoli cavalli adornati per l'occasione. Incitati dalle urla ed inferociti dalle aguzze punte poste sui loro fianchi, venivano lanciati in piazza del Popolo per essere ripresi nell'attuale piazza Venezia. Nobili e cardinali avevano il proprio barbero ed assistevano alla gara dai palchi e dalle tribune allestiti lungo il percorso. Il vincitore riceveva il palio, uno stendardo in panno finemente decorato, ed una somma in denaro.
Gli incidenti agli animali erano frequenti, non vi si faceva molto caso. Talvolta però si ebbero vittime anche fra gli spettatori. Nel 1624 un uomo mascherato, spaventando i barberi con il proprio cavallo, provocò la morte di un bambino. Si trattava di un reato per cui era prevista l'impiccagione, ma "La Corte non hebbe ardire di far prigione detta maschera reputata per persona di qualità all'habito e al Cavallo ma per poco pratico cavaliere". La corsa fu definitivamente soppressa all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso.
A vivacizzare il Carnevale c'erano anche i caratteristici carri allegorici, che rappresentavano scene mitologiche oppure eventi politici, allestiti da rioni, autorità cittadine e famiglie nobili, ed i cortei mascherati che sfilavano lungo il Corso - Cassandrini e Meo Patacca, Pulcinella e Rugantini in quantità - con la significativa partecipazione degli artisti stranieri ospiti delle Accademie. Alcuni carri fecero a lungo parlare di sé, come quello musicale ideato agli inizi del Seicento dall'artista e scienziato Pietro della Valle. Dedicato alla Fedeltà d'Amore, era composto da cinque voci e strumenti. "Piacque estremamente", riferiscono i cronisti dell'epoca, tanto che si trascinò dietro "quasi tutta la città" e dovette ripetere infinite volte lo spettacolo, perché ognuno voleva ascoltarlo "quattro o sei volte".
Numerosi editti, emanati annualmente per alcuni secoli, regolavano i divertimenti carnevaleschi. Alle donne era vietato mascherarsi - ma i diari dell'epoca ci dicono che le autorità in genere chiudevano un occhio - così come non si potevano usare maschere che "in qualunque modo rappresentino persone di religione". Ovviamente, era anche proibito lanciare oggetti, uova "con acqua guasta, melangoli, eranci, rape", ma i romani non davano più di tanto ascolto alle disposizioni, e talvolta bersagliavano anche le allegorie dei carri carnevaleschi, spesso incomprensibili ai più.
Le uova ricevevano una particolare attenzione da parte delle autorità, che arrivarono ad impedirne la vendita recandosi direttamente a distruggerle nelle botteghe. Nulla da fare. Quei bricconi di romani lanciavano di tutto: se i confetti di gesso - pesanti antenati dei coriandoli - venivano riversati a pioggia nelle strade, vi erano anche lanci di cose che "non è lecito nominare". Gli oggetti volavano spesso dalle finestre macchiando "vesti di valore a gentildonne e cavalieri", e talvolta ci scappava pure qualche ferito. Per gli eccessi carnevaleschi era prevista persino la condanna a morte, ma le pene venivano decise caso per caso "ad arbitrio di Monsignor Reverendissimo Governatore". I trasgressori dei divieti furono spesso sottoposti in pubblico alla fustigazione - come nel 1692, quando "fu frustato per la città un ammascherato da Pulcinella perché andava scherzando per il Corso con un salame" - oppure al supplizio della corda: il malcapitato veniva sollevato da terra con una fune collegata ad una carrucola che teneva legate le braccia dietro la schiena, e poi lasciato cadere di colpo. Anche le prostitute sorprese in maschera - a dispetto del divieto loro imposto - erano frustate, ovviamente in pubblico e, inutile dirlo, lungo il Corso... tutto è spettacolo!
I romani non potevano far finta di nulla. Gli strumenti di tortura erano infatti sistemati in modo stabile per le vie più frequentate della città fino al 1798 quando, a furor di popolo, furono abbattuti a colpi di scure. Nella seconda metà del Seicento si era intanto radicata la macabra consuetudine di eseguire le sentenze capitali in pubblico, nelle principali piazze romane, proprio nei giorni dei festeggiamenti carnevaleschi, "cosa insolita da farsi in quei giorni allegri", sottolinea Giacinto Gigli nel suo diario. Nel Settecento iniziarono ad essere giustiziati durante il Carnevale i condannati eccellenti, in carcere per motivi politici: il rito della punizione, trasformato in spettacolo, doveva avere una funzione deterrente nei confronti dei malintenzionati.
Nobili e cardinali concludevano le serate con quelle sontuose rappresentazioni che si svolgevano, oltre che nei teatri pubblici - per alcuni secoli aperti solo durante il Carnevale - nelle abitazioni private dell'aristocrazia. Alla fine del Settecento i nobili iniziarono ad utilizzare i teatri anche per feste da ballo e banchetti.
Pure i divertimenti apparentemente più innocui furono in alcuni periodi soggetti a restrizioni e divieti, come la festa dei moccoletti che il martedì grasso, nel suo sfavillante e magico scintillio, concludeva il Carnevale. La città cambiava allora aspetto: le finestre si illuminavano, ed una enorme e chiassosa folla si riversava nelle strade. Ognuno aveva un proprio lume, ed il divertimento consisteva nello spegnere con qualsiasi stratagemma (l'inventiva era veramente grande!) il moccolo degli altri, cercando di tener sempre acceso il proprio. Nell'allegra confusione, secondo le fonti dell'epoca, si alzavano anche "infiniti clamori" ed espressioni "indecenti e scandalose". In alcune occasioni arrivarono quindi i divieti: chiunque fosse stato trovato, il martedì grasso, con "candele, moccoli, lanternoni o fiaccole" rischiava cinque anni di carcere. Non è tutto. Chi denunciava i detentori di moccoletti avrebbe dovuto ricevere un premio pecuniario. Il condizionale è d'obbligo perché le autorità, mentre cercavano di sviluppare con incentivi materiali la collaborazione popolare, spesso non mantenevano le promesse.
La risposta religiosa a questi festeggiamenti profani - che alcuni pontefici, a differenza di altri, tentarono di osteggiare - erano le Quarantore, cerimonia celebrata negli ultimi giorni di Carnevale in alcune chiese (la più famosa si svolgeva al Gesù) con musica, teatro sacro, macchine ed apparati vari, allestiti con i migliori mezzi scenografici.
Ma certo la lotta era impari, ed il Carnevale aveva la meglio, continuando a stupire i viaggiatori in sosta a Roma, non sempre però coinvolti dal clima di festa esistente nella città. Nel 1788 Goethe, lamentando che i romani durante quei giorni erano autorizzati ad "essere pazzi e stravaganti quanto gli pare e piace", nel suo aristocratico distacco concludeva che bisogna averlo visto il Carnevale romano, una festa a suo avviso priva di vera allegria, "non fosse altro che per togliersi dalla mente il desiderio di rivederlo".
Soltanto alcune calamità naturali, gravi epidemie o guerre, nonché la morte di un pontefice durante il Carnevale riuscivano a frenare la baldoria. Le restrizioni venivano però accettate malvolentieri, e c'era sempre chi non voleva rinunciare al divertimento. Nel 1702, anno di giubileo straordinario, il Carnevale praticamente non fu festeggiato. L'anno successivo, in seguito ad un forte terremoto che aveva colpito Roma, vennero emanati nuovi divieti. Qualcuno organizzò uno scherzo. Nella notte fra il 3 ed il 4 febbraio, riferisce il diarista Valesio, "si sollevò universalmente per la città un sussurro": la Madonna, apparsa al pontefice, aveva annunciato per le ore successive un tremendo terremoto che avrebbe portato la città alla distruzione. In un baleno la voce si diffuse di casa in casa, e "per lo spavento moltissimi uscirono nudi involti solo nelle coperte di letto". Scoppiarono tumulti nelle carceri e proteste nei monasteri. Le piazze si riempirono, finché gli sbirri riuscirono a far ritornare tutti nelle proprie abitazioni. I colpevoli dello scherzo rimasero ignoti, ma una spiegazione andava comunque fornita. Fu allora escogitata una comoda soluzione: si era trattato di un "fatto diabolico". Il diavolo non poteva certo essere imprigionato, e la credibilità delle autorità papali ne usciva salva.
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Messaggioda PinGuido il sab dic 23, 2006 11:11 am

lennon85 ha scritto:"Li Fauni"


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Messaggioda kaa il sab dic 23, 2006 11:29 am

Oasis4ever ha scritto:
lennon85 ha scritto:"Li Fauni"


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