La polemica, lo snobismo e l'accanimento, sono nella loro splendida gratuità il cliché più ficcante del musicofilo italiano medio, e si trasformano in vero e proprio sport da salutisti quando si parla dei Baustelle. Se da una parte è un dovere quasi morale contrastare certe pratiche distruttive che di critico invero hanno ben poco, dall'altra però a volte è altrettanto doveroso azzardarsi a prendere certe posizioni, perché (anche se dirlo costa qualche sacrificio) "I Mistici dell'Occidente" è un disco che soffre di tante pecche: in primis, la ripetitività delle soluzioni melodiche e armoniche (insomma, va bene l'ispirazione, ma l'apertura de "Gli Spietati" è puro plagio dei Rokes di "Che colpa abbiamo noi"; va bene anche avere una propria cifra stilistica ma il ritornello è davvero troppo simile a "Piangi Roma", che a sua volta era stata scritta sul calco de "L'Aeroplano", e così via).
Volendo continuare, si potrebbe anche parlare di come questo disco sia estremamente pesante e abbondante, monocorde e quasi claustrofobico: a partire dagli arrangiamenti e dalle orchestrazioni gonfiate al limite (la ricchezza è quasi sempre un valore aggiunto, vero, ma è anche bene capire quando diventa troppa, e bisogna anche avere il buon gusto per capire che mettere le campane in quasi tutti i pezzi non è esattamente elegante, così come inserire cori da stadio o da valchirie wagneriane), alla super produzione che regala suoni pulitissimi, ma anche forse un noioso appiattimento, alla tendenza generale al rallentamento esasperato del cantato che sembra mimare filastrocche al rallentatore e costringe un Bianconi mai così lemme a parole e sillabe sincopate fino allo spasmo, fino a far sembrare il tutto una fittizia recitazione. I testi, svuotatisi della prospettiva pseudo-sociale sulla quale era incentrato "Amen" e che tutto sommato funzionavano, diventano roboanti e pretenziose frasi ad effetto (ci salveremo disprezzando la realtà , e questo mucchio di coglioni sparirà !) in pieno stile baustelliano, cariche di tutto quell'immaginario maudit di provincia italiana, un po' divertente un po' patetico, a cui il gruppo ci ha abituato fin dai primissimi anni della sua carriera.
Insomma, volendo si potrebbe stare lì a sperticarsi di critiche, faziose od obiettive che siano, ma la verità è che se nel 2010 possiamo usare l'aggettivo baustelliano, qualcosa vorrà dire. Il gruppo toscano è uno dei più controversi e contraddittori dell'ultimo decennio di musica italiana, e trovo quindi sinceramente impossibile schierarsi da una parte o l'altra; trovo invece abbastanza semplice dire che nonostante tutto, un pop così ben scritto, arrangiato e prodotto non si sente in Italia da un bel po', e che le ballate di questo disco splendono talvolta di un fascino e di una poetica talmente fini da compiacersene al solo ascoltarle ("Follonica" è un bell'esempio, ma anche "Il sottoscritto" è Pura e Cristallina Canzone Italiana); ancora, alcune canzoni hanno una trama così perfetta e maliziosa (o paracula, se me lo concedete) che alla fine non te ne importa niente se è sempre la solita da anni, puoi anche lamentarti, vergognarti o indignarti, ma la verità è che Bianconi te l'ha fatta un'altra volta. Anche se per cantarle bisogna mettersi in posa ed evitare di prendersi sul serio, le parole di questo disco sono talmente ben pronunciate (qualcosa che al giorno d'oggi si è completamente dimenticato come valore musicale aggiunto, relegato a esercizio demodé) e ben fedeli alla metrica che si fanno cantare da sole senza sforzi, e funzionano benissimo nella tua cameretta come a Radio Deejay, al Festivalbar come al Premio Tenco, sulla bocca di tua madre e su quella del tuo migliore amico. La verità , insomma, è che i Baustelle hanno scritto un altro bellissimo disco.
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