Pantani in tv commuoverÃ
Rai1 trasmetterà lunedì prossimo il film sulla vita del Pirata, interpretato da Rolando Ravello: abbiamo visto in anteprima la fiction, ecco perché piacerÃ
MILANO, 1 febbraio 2007 - E’ la storia di un uomo. Di un bambino che giocava a pallone e teneva al Milan, di un ragazzino che trovò una bicicletta rossa e imparò a lavarla, di un ragazzo che ricevette una bici grigia e imparò a rispettarla, di un atleta che conquistò una possibilità , una squadra, una corsa e imparò ad amare quella vita da vagabondo, da nomade, da fenomeno.
«Una maratona tutti i giorni per un mese, non bastano le gambe, bisogna essere forti dentro», lo avvertiva il suo primo allenatore. E Pantani-Marco-bene-in-salita ci ha creduto, ci credeva, alla fine si ostinava a crederci raccontandosi anche delle bugie. Ma le strade, quando non sono diritte, si trasformano in un labirinto. Ne esci a pezzi. O non ne esci più.
AFFETTO E DEBOLEZZA E’ la storia di un uomo, e già questo dà un senso a 100 minuti che ti incollano allo schermo (il film andrà in onda lunedì su Rai1 alle 21.10). Con tutti i suoi sogni, il suo senso della giustizia, la sua voglia di celebrità , il suo bisogno di affetto, il suo carosello di passioni. La sua forza e la sua debolezza: come in tutti noi. La sua tenacia e la sua fragilità : come in tutti noi. La sua fede e la sua colpa: come in tutti noi. Marco che si alzava sui pedali, come tutti noi ci alziamo dal letto e andiamo a lavorare in fabbrica o in negozio o a scuola. A cercare il nostro pane quotidiano e a inseguire il nostro momento di gloria. Ma il paradiso confina con l’inferno, soprattutto è l’inferno a confinare, e a sconfinare, nei paradisi, specie quelli artificiali. Dietro l’angolo c’è l’ignoto.
Pantani sta dentro di noi. Non è lontano come Bartali e Coppi: loro erano in bianco e nero, venivano dalla guerra, cresciuti con la fame addosso, rinati dalle macerie, sapevano di sterrato e di fango, si facevano di simpamina, il loro simbolo era una borraccia.
Il romanzo di Pantani è fresco, a colori, con una colonna sonora che non si è ancora spenta, il suo doping («Niente di diverso da quello che fanno gli altri») stava nel sangue, e il suo simbolo era un fuoristrada 4x4. Ma questo è un film, non un documentario, anche se a volte le immagini si sovrappongono, si uniscono, si sposano. Questo è un film, vuole raccontare ed emozionare. Non vuole fondarsi sulla scienza, vuole scuotere la coscienza.
FINTO E AUTENTICO Però il Pantani che esce dall’albergo di Madonna di Campiglio, scortato dai carabinieri, è finto, eppure così drammaticamente simile a quello autentico. Un Felice Gimondi vero solleva il braccio di Marco Pantani finto, ma la vittoria è vera. Un Gianni Minà vero intervista Marco Pantani finto, ma le parole sono vere. E così vero è anche il testamento. E così vero è anche il tunnel di una dipendenza, di una sconfitta da cui non si torna indietro, ma che forse ha seminato qualcosa di buono. La bici chiede e trova sempre nuovi orizzonti.
Certo, è un film buonista, poetico, romanzato. E alla fine rimane quel senso di impotenza che t’invade quando uno di noi non ce la fa a rialzarsi. T’illudi e pensi a una parola, a una telefonata, a un invito, a una preghiera, a una canzone, a una biciclettata che non sono mai state fatte e che forse avrebbero potuto cambiare il finale. Ma non è così. Abbiamo i nostri limiti, le nostre miserie, e non è mai facile stabilirle con una regola come quella del doping di allora: 50%, sotto sei dentro, sopra sei fuori.
Marco Pastonesi
Da "la gazzetta dello sport"